Introduzione al forum

Marta Vigorelli, Giovanni Foresti

Cari colleghi, a seguito della giornata di studio del 17 novembre sul tema “Quali comunità terapeutiche per i pazienti borderline?” che ha suscitato un’intensa e numerosa partecipazione, abbiamo pensato di aprire uno spazio di discussione più approfondito che in quella sede non era stato possibile.
La relazione di Antonello Correale
“Come il paziente borderline vive sé e il mondo” farà da sfondo imprescindibile alla riflessione sui diversi modi con cui si possono articolare i percorsi di cura.Tra i molteplici interventi presentati abbiamo sintetizzato tre modelli di trattamento che saranno oggetto specifico della nostra discussione, perché li riteniamo rappresentativi come riferimento in vista di eventuali iniziative sperimentali o di conferma di esperienze già in atto in Italia:
1) Il modello del Cassel presentato da Marco Chiesa che, sulla scorta dei risultati della ricerca (Roth e Fonagy 2005, Chiesa 2005 ) struttura un trattamento intensivo in regime ambulatoriale di day-Hospital in cui il doppio setting della psicoterapia individuale e di gruppo si integra con le cure psicofarmacologiche e le altre attività riabilitative ecc.
Risponde ai criteri di efficacia che la rassegna internazionale sui risultati
degli esiti ( Bateman e Fonagy 2005) indica come fattori comuni di tutti
i modelli di trattamento fino ad ora realizzati e che segnaliamo:a. Alto livello di strutturazione
b. Realizzazione coerente e affidabile con una forte alleanza tra paziente e terapeuta che ha un ruolo abbastanza attivo
c. Hanno un chiaro focus (vedi comportamenti autolesivi o pattern ricorrenti)
d. Coerenza teorica
e. Flessibilità
f. Intensità modulata in base ai bisogni
g. Approccio personalizzato
h. Buona integrazione con altri servizi di comunità2) Il modello della comunità terapeutica specializzata per pazienti con disturbo di personalità borderline e doppia diagnosi attraverso l’esemplificazione di due esperienze: quella de Il Porto presentata da Metello Corulli e quella di Villa Ratti presentata da Giorgio Rezzonico.
3) Il modello della comunità mista con pazienti psicotici e pazienti borderline presentato da Giada Boldetti con una particolare attenzione alla diversificazione dei progetti e alla percentuale rispetto al numero globale dei residentiLa discussione comune partirà dalla lettura preliminare di questi contributi, come cornice del dibattito orientando la discussione per facilitare poi una sintesi dei conduttori che saranno Marta Vigorelli, Antonello Correale e Marco Chiesa che interverranno settimanalmente e alla conclusione de Forum.Invitiamo quindi caldamente tutti a iscriversi e a partecipare costruttivamente.



Alice Banfi

“Quali comunità per i pazienti borderline”.
Tutte e nessuna.
In generale penso che tutti i modelli proposti possano andare bene o non essere adatti, perché parto da un semplice ed importante principio, per il quale tutto è estremamente soggettivo, una psicopatologia non rende gli individui che ne soffrono tutti uguali.
Così come qualsiasi intervento terapeutico, anche una comunità può essere efficace ed adatta ad una persona e non ad un'altra anche se soffrono dello stesso disturbo.
Ho però alcune perplessità nell’immaginare una comunità terapeutica esclusivamente per persone con modello borderline di personalità.
Io ho uno stile di personalità borderline e sono stata quasi 3 anni in una comunità terapeutica divisa in due strutture: “A” e “B” avevano come ospiti rispettivamente, nella prima persone con diagnosi diverse di disagio mentale e nella seconda persone con doppia diagnosi.
Io ero residente in “A” e ripercorrendo la mia esperienza posso fare alcune considerazioni.
Tutto il mio percorso è stato molto difficile ma un certo tipo di dinamiche tra residenti si presentarono con più frequenza e divennero più gravi quando gli ospiti con disturbo di personalità borderline aumentarono.
Al mio ingresso io ed una coetanea eravamo le uniche residenti con modello di personalità borderline, dopo due anni i residenti con questa diagnosi erano circa cinque su una ventina. Succedeva spesso che se uno di noi cinque compiva un atto autolesivo almeno anche un altro di questo gruppo lo imitava compiendo anche lui un atto di autolesionismo. Accadde anche che una ragazzo borderline che non presentava alcun sintomo di disturbi alimentari dopo breve tempo si mise ad “emulare” me ed un’altra residente cominciando a provocarsi il vomito dopo i pasti.
In fine un’altra residente fece lo stesso.
Sembrava quasi un contagio. Così fu per tutto, l’abuso di alcolici, l’autolesionismo, i furti e diverse trasgressioni divennero “atti di gruppo”.
Non eravamo certo gli unici a trasgredire, a fare uso di alcolici, ecc.
Ma eravamo gli unici a farlo in gruppo o in coppia.
Ci si organizzava con piani precisi, per compiere un furto, per comprare alcolici, per vomitare dopo i pasti ed insegnare come vomitare a chi non era “esperto”.
Addirittura l’autolesionismo non era più un gesto personale, Io ed un altro residente ci facevamo del male stando uno davanti all’altro e io ed un’altra ragazza pianificavamo assieme “suicidi di coppia”.
Gli atti autolesionistici e suicidari e l’atto di provocarsi il vomito, sono solitamente molto “privati”, non si fanno in compagnia.
Una volta ci trovammo in quattro tutti nello stesso bagno a fare a turno per vomitare. Questa è una cosa assolutamente fuori della norma.
Eravamo personalità adesive, raramente potevamo essere d’aiuto l’uno all’altro, era esattamente il contrario, ognuno trascinava l’altro in trasgressioni e gesti autolesivi.
Io mi relazionavo con tutti i residenti, ed ero anche in grado di dare consigli o aiuto alle persone che non avevano la mia diagnosi. Non c’era con queste persone… (come spiegarlo)… questa specie di scambio di sintomi e modi di agire.
Partendo da questa esperienza posso solo immaginare cosa può accadere in una comunità solo per soggetti con diagnosi di personalità borderline.
Mi viene in mente quando fui ricoverata nel reparto per disturbi alimentari di Una clinica convenzionata.
Sicuramente la terapia era mirata, specifica ma non era un fatto positivo essere una ventina di ragazze ricoverate assieme, tutte con sintomi molto simili.
Quando una di noi si tagliava, creava una spaventosa reazione a catena e tutte cominciavano a tagliarsi.
Era una gara tremenda a chi diventava più magra, a chi vomitava meglio, a chi si faceva più male.
Gestire simili situazioni è difficile ma possibile quando un quarto dei residenti di una comunità ha un disturbo di personalità borderline, mi chiedo come sia possibile quando tutti i residenti, supponiamo venti persone con questa diagnosi attivano le dinamiche che ho descritto.


Marta Vigorelli

Ringraziamo Alice Banfi per i suoi interventi che avviano il Forum con una testimonianza autentica e pensata, che ci pone di fronte all'oggetto vivo della nostra discussione.
Se il suo primo intervento personale descrive le dinamiche ricorrenti delle ripetizioni di "scene" e "sequenze" traumatiche, tipiche di queste sofferenze, d'altro canto suggerisce alcune modalità di risposta consapevole, che tendono ad integrare una dimensione affettivo-cognitiva e comportamentale, interiorizzabile attraverso un prolungato percorso di cura; molto spesso questo complesso iter non ha un andamento lineare, ma si realizza a più riprese e con passaggi in strutture diverse e con finalità differenti.
Ci chiediamo: che cosa può far sì che questi passaggi non costituiscano un semplice assemblaggio di esperienze tra loro sconnesse, ma tappe in qualche modo evolutive e orientate alla trsformazione del soggetto?Un altro aspetto del suo secondo intervento su cui focalizzare la nostra attenzione può essere quello relativo ai meccanismi imitativi, legati a difese primitive che innescano agiti autolesivi e che sembrerebbero facilitati dalla comprensenza di numerosi pazienti con omogenea psicopatologia all'interno di una Comunità terapeutica ad alta protezione.
I risultati della ricerche di Marco Chiesa di cui ci ha parlato durante la Giornata di studio e nella rassegna presente nel sito sembrerebbero confermare questi rischi e aprire a considerazioni che riguardano modalità di trattamento più focalizzate su un progetto individualizzato (pur integrato con un lavoro di gruppo) e in un contesto di cura meno totalizzante della Comunità terapeutica.
Mi sembrano questi utili spunti di discussione.Marta Vigorelli

a.ferruta@adsl256

Leggendo gli interventi finora apparsi nel forum, mi è venuto in mente un passaggio del libro di Bollas Il mistero delle cose, Raffaello Cortina Editore: “Per il paziente borderline, pensare a quest'oggetto o parlarne non procura l'atteso sollievo. Infatti, si tratta di un doloroso “movimento circolare sempre più ampio di pensieri, che impedisce al centro di trattenerli. (..) Cosa accade se il bambino sperimenta la madre come movimento distruttivo, alla fine riconoscibile come una trasformazione negativa del sé? (…) Come Ahab, che segue la scia del suo tormentatore, Moby Dick, questa persona segue l'oggetto che agita il sé (..) L'agitazione è la presenza dell'oggetto (…) la rinnovata agitazione emotiva è stranamente nutritiva e, in genere, preferita al vuoto. “ (161-164). “L'oggetto primario è comunque sperimentato solo come effetto ricorrente nel sé. ” (160)
Il borderline ha difficoltà a stabilire un rapporto continuativo con l'altro e con se stesso: Bollas afferma che porta in sé la traccia interiorizzata del rapporto con un oggetto che ha fornito esperienze molto intense di presenza e di assenza. L'intensità della presenza e l 'intensità dell'assenza significano la madre e il sè.
Ritengo che il borderline necessiti di fare esperienza di una continuità, nella relazione, che regga e sopravviva ai suoi allontanamenti che, secondo Bollas, rendono presente l'oggetto nella sua totalità.
La stabilità della CT è troppo presente, quella delle cure ambulatoriali troppo poco...
Ritengo che tutte e due le proposte terapeutiche si debbano confrontare con la discontinutità del border, che, quando si manifesta nel corso della terapia, rappresenta la risposta proprio alla adeguatezza delle cure che gli fanno cercare, oltre alla presenza dell'oggetto, la sua assenza, come un rivivere il rapporto con un oggetto che agita il sè.
Si tratta di capire il problema e predisporre per il border dei "rientri" che riducano la discontinutà e gli permettano di sentire gli intervalli tra presenze e assenze come parte di un'unica trama relazionale.


gio

a.ferruta@adsl256 ha scritto:Ritengo che il borderline necessiti di fare esperienza di una continuità, nella relazione, che regga e sopravviva ai suoi allontanamenti che, secondo Bollas, rendono presente l'oggetto nella sua totalità.
La stabilità della CT è troppo presente, quella delle cure ambulatoriali troppo poco...
spero di non dire cose assolutamente prive di senso... ma mi chiedevo alla luce di questa sua affermazione se non fosse quindi, questa, una lente da usare per poter leggere il "drop out" dei pazienti borderline che lasciano le comunità.. Quindi, di Drop out non avrebbe senso parlare - o, comunque, non sempre.. E nemmeno sarebbe leggibile come un attacco al legame e ala cura, bensì come il disperato tentativo di trovare una giusta distanza che non schiacci e non trascuri; una fuga dettata dalla necessità di un po' di lontananza per prendere fiato da una realtà che sembra diventare fagocitante e/o inglobante.. non so se può avere un senso...

asantoro

sono in sintonia con quanto espresso sinora, in particolare con quanto espresso da A. Ferruta sull'importanza di restituire all'ospite in comunità un' esperienza di continuità. a mio parere si dovrebbe perlare di un'esperienza di 'discontinuità ripetute' che consenta cioè di sperimentare una serie di processi riparatori a ripetute, temporanee separazioni;
attraverso la gestione attenta di tali esperienze microtraumetiche il border può elaborare il trauma dell'abbandono originario e sperimentare una separazione 'possibile', può raggiungere una costanza dell'oggetto che ne consente la mentalizzazione e l'introiezione di elementi utili alla costruzione di un Sè più stabile, meno dipendente dall'altro, o dalla sua assenza per sentire di esistere.
questo processo di ricerca della 'giusta distanza' attraverso la riproposizione di 'separazioni possibili' nella mia esperienza con border adolescenti ritengo sia utile che avvenga all'interno del sistema della comunità terapeutica, il che presuppone che la stessa sia predisposta a 'sopravvivere' agli 'attacchi' dell'ospite, intesi come attacchi al legame; agiti di vario genere tra cui in particolare i 'distacchi' dalla comunità.
perchè si configuri un drop out è necessario pertanto che venga compiuto prima un percorso di recupero degli obiettivi condivisi ed anche che sia possibile consentire al ragazzo border di sperimentare l'allontanamento dal nucleo senza che questo significhi necessariamente una dimissione automatica. questo è ancor più vero a mio giudizio se si considera che molto spesso un allontanamento volontario dalla comunità per un adolescente border coincide col tentativo di avvicinamento ad altri riferimenti affettivi, quali la famiglia o sostituti parentali che può essere tentato solo se si sente di poter disporre di una 'base sicura' su cui contare.
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antonio-s.

a.ferruta

Sono abbastanza d'accordo che sia utile rivedere la categoria dropout per i borderline: Santoro fa riferimenti alle concettualizzazioni di Winnicott sulla tendenza antisociale ritenuta un segno di speranza, di ritrovare, dopo ripetute esperienze di fuga e discontinuità, quell'esperienza che comprende il dramma della ricerca dell'oggetto costante e non soffocante ed esclusivo.
Una questione importante è relativa a chi può reggere queste discontinuità: il lavoro in gruppo mi sembra indispensabile per comprendere e reggere tale violenta scansione delle relazioni e degli affetti, senza sottomissione e senza ritorsione.
Altrettanto importante è l'individuazione di percorsi, di steps che rendano possibili i "rientri" con significato terapeutico.
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Anna Ferruta

Alice Banfi


Residenza: Camogli (Ge)
Sono perfettamente d'accordo con ciò che scrive asantoro.
Quando il borderline si trova in comunità le sue figure di riferimento diventano gli operatori ed è nei loro confronti che si attivano le "dinamiche abbandoniche". Quindi la fuga dalla comunità va letta senza dubbio come attacco al legame. Per questo è determinante impostare il rientro in comunità in modo "terapeutico" e non punitivo. Il borderline scappa per essere inseguito, scappa per essere riaccolto, o meglio per verificare se verrà riaccolto o "abbandonato". In questo senso anche le dimissioni dalla struttura dovrebbero essere attentamente organizzate, sia che si tratti di dimissioni per termine del percorso comunitario, sia che si tratti di dimissione volontaria del residente o dimissioni ritenute necessarie per altri motivi; così che il borderline non viva la dimissione come un abbandono.
Generalmente quando le dimissioni avvengono per termine del percorso in struttura, il residente viene "festeggiato", l'uscita dalla comunità viene vissuta come una conquista, il raggiungimento di un obbiettivo. In altre circostanze (parlo da paziente) le dimissioni non solo vengono vissute come abbandono ma anche come una vera e propria aggressione e un'ingiustizia. Per questo credo sia necessario che la dimissione venga ampiamente motivata e spiegata al residente. La necessità di motivare l'uscita dalla comunità di un residente dovrebbe essere estesa anche agli altri residenti, quelli che rimangono e risentono a loro volta del distacco.
E' necessario che si allestisca uno spazio, un momento di gruppo perchè i residenti possano in qualche modo "salutare" chi sta andando via.
Alice Banfi.

antonello correale

Sono molto contento della piega che sta prenderndo il dibattito perchè sta facendo emergere alcuni punti cruciali. In questo mio primo intervento vorrei sottolinearne essenzialmente due. Il primo riguardante il cosiddetto copione e il secondo riguardante la necessità di usare un lignuaggio "sensuale".
Il discorso su i copione può essere a mio parere utilmente affrontato all'interno del modello trauma-dissociazione. Secondo tale modello, l'incontro col trauma o con tutto ciò che lo riprensentifica, non determina soltanto la ripetizione di un modello reazionale fisso, e ad alto tasso emozionale e a basso tasso rappresentativo, ma determina anche una più o meno accentuata alterazione dello stato di coscienza. Questa alterazione può essere vissuta come un certo senso di distacco dalla realtà, un senso di automatismo, come una incapacità di uscire da una sorta di comportamento coatto, da una più o meno accentuata mancanza di consapevolezza di ciò che sta avvenendo al soggetto, insomma da quello che potremmo chiamare un certo senso di essere trascinato, in un comportamento che eccede l'incapacità della coscienza di controllarlo e modularlo.
Per usare la terminologia di uno psichiatra australiano, Russell Meares, si determina una disgregazione fra coscienza di base e cosicenza allargata, in cui la coscienza di base prende il sopravvento, e la capacità di riflessione e di controllo va incontro ad una maggiore o minore obliterazione. in quei momenti non serve l'interpretazione, non serve l'attività simbolica, ma solo una ferma capacità di conforto comunicazione, connessione fra gli eventi e aiuto a riconsiderare ciò che avviene da un punto di vista più rilfessivo e meno automatico.
Non c'è dubbio che la vita comunitaria con i legami molto stretti che determia, si presti a indurre più facimente le altre situazioni esperienze frustranti o negative, che possono attivare tutta la sequenza che ho appena descritto. E' uitle in questi casi imparare insieme al nostro paziente che cosa determina la sequenza stessa e che cosa caratterizza questi particolari stati di coscienza in modo da farselo alleato nel tentativo di controllarli.
Il secondo punto riguarda il carattere "sensuale" del discorso.
E' molto importante non confondere in alcun modo il termine sensuale con un atteggiamento di iper empatia e di iper affettività, di accettazione indiscriminata di giustificazione globale di qualunque atteggiamento il paziente abbia o peggio ancora di comunicazione al paziente di vissuti intimi o troppo personali. Niente di tutto questo!
Sensuale vuol dire un linguaggio ricco di capacità espressive con termini tratti dalla vita quotidiana e non astratti, ad alta valenza immaginativa, capaci di allargare il campo e di dare l'idea che un singolo oggetto contenga già nella percezione di se stesso molto più di quanto possa sembrare ad un primo approccio. Insomma il termine sensuale va preso nella sua accezione fenomelogica, come di restituzione alle cose della loro ricca sfaccettatura percettiva e non soltanto in un singolo loro aspetto.
Il linguaggio inoltre non dovrebbe riguardare troppo strettamente sè o l'altro, il paziente o il terapeuta, ma riguardare sentimenti, problemi, tematiche, comuni a tutti gli esseri umani, che insieme terapeuta e paziente affrontano come tematiche umane: ad esempio l'amore, il sesso, la rabbia, il lutto, l'amicizia, la malattia, la morte, e altre ancora. Si dovrebbe insomma tentare di fare col nostro paziente una specie di filosofia vissuta, radicata nella potenza dei sentimenti umani e della loro intrinsce a tendenza conflittuale, il che non ha nulla a che vedere con una esposizione di vissuti personali o con una accettazione indiscriminata di tipo giustificativo - del tipo tutto ti è permesso perchè sei così infelice - che farebbe sentire il paziente ancora più solo e disperato.
Mi auguro che sia possibile riprendere ed approfondire ancora meglio queste tematiche

cassel


Dibattito molto interessante che tocca punti importanti nel discorso corrente sul trattamento dei pazienti con patologia borderline. Alice Banfi punta il dito sula questione dell' effeto 'emulazione' che e' spesso presente nel trattamento residenziale. il 'contagio' di patologia che 'infetta' pazienti che prima non avevano esibito comportamenti disfunzionali in quella direzione (automutilazioni, disturbi alimentari ect). Questo fenomeno e' stato osservato in ambienti ospedalieri e comunitá terapeutiche da molto tempo. Al Royal Free Hospital, un ospedale universitario nel nord di Londra, c'era una unitá per disturbi dell' alimentazione che offriva un programma ospedaliero a medio-lungo termine. Il direttore del programma, dr Robinson, noto' un aumento di automutilazioni impressionante e dopo pochi anni concluse che il setting di inpatient favoriva di per se stesso lo sviluppo di atteggiamenti regressivi maligni che portavano a alte percentuali di dropout e di incidenti gravi. Allora chiuse il reparto e lo rifondo come Day Hospital, con un programma piu' flessibile. il risultato fu che si assistette alla diminuzione della patologia presentata dai pazienti e da un migiore grado di treatment adherence. Questi risultati sono stati confermati da una ricerca randomizzata fatta da Simon Gowers e colleghi a Liverpool, che dimostra che l' intervento ospedaliero con adolecscenti con disturbi dell' alimentazione porti a risultati peggiori rispetto ai programmi ambulatoriali valutati nel loro progetto I nostri dati sugli esiti sui pazienti borderline lascia pochi dubbi che la residenzialitá a lungo termine sia associata con fenomeni regressivi e iatrogeni in modo superiore rispetto ad interventi ambulatoriali e territoriali. Sono daccordo con Gio quando parla di dropout come fuga da un luogo troppo intenso e come disperato tentativo di trovare una giusta distanza, piu' facilmente trovabile in un trattamento a media intensita'. Le odds ratios rilevate dei nostri campioni (piu' di 300 pazienti) dimostarno che il paziente ospedalizzato ha un aprobabilitá 4 volte superiore a quella di un paziente territoriale di abbandonare il trattamento. Il problema per il movimento comunitá terapeutica e di dimostratre 1) quali pazienti rispondono positivamente all' inserimento nella comunitá,e b) Che il trattamento residenziale sia necessario per ottenere i miglioramenti e il cambiamento. E' una sfida che deve essere raccolta in modo costruttivo prima che sia troppo tardi, come sta succedendo nel Regno unito, dove sono rimaste solo 2 grandi strutture residenziali a orientamento comunitá terapeutica.
Auguri e a presto!
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Marco Chiesa
Primario Psichiatra
Cassel Hospital

marzia perazzi


Rispetto al problema posto da Antonio Santoro ed altri sul drop-out come parte del processo terapeutico, mi risuona in modo riflesso il concetto di dialetticità della terapia secondo M. Linehan...
Tale caratteristica potenzialmente terapeutica dovrebbe estrinsecarsi non solo all'interno del processo comunitario per se, ma anche nel complesso del trattamento, con una sorta di "pendolarizzazione integrata" tra l'intervento territoriale da un lato e quello residenziale dall'altro. Trovo che, anche laddove si tenti con tutta la buona volontà di mantenere un atteggiamento dialettico tra corresponsabili del progetto, risulti tuttavia estremamente difficile ricostruire un baricentro possibile che renda sostenibili le oscillazioni del paziente. Ho cioè l'impressione, da operatore del territorio, che la ripetizione controllata ed ogni volta rielaborabile dell'esperienza traumatica potrebbe avere un'intrinseca valenza terapeutica, ma che le rotture del/dei setting diventino insolubili e nuovamente traumatizzanti proprio perché la rete come tale non è preparata a sostenerle... Mi pare che questo sia un momento critico del processo curativo del paziente BL ancora poco riconosciuto ed indagato
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PERA

Giovanni Foresti

Un punto che a me pare importante sottolineare è l'importanza di una regolare, periodica manutenzione dell'organizzazione istituzionale.
Penso che il bisogno di strutturare gli interventi, abbia prodotto un'utile molteplicità di tecniche di intervento e di concezioni teoriche. La ricchezza di questi contenuti, però, può essere difficile da integrare nella vita di un'istituzione. Oltre a un chiaro riconoscimento del minimo comun denominatore dei modelli, occorre dedicare un'attenzione costante al concreto strutturarsi della vita degli utenti e -- aspetto decisivo -- alla vita dei curanti.
Questi ultimi hanno riunioni costanti in cui si esprimono dissensi vivaci (ed è il caso migliore) oppure che languono paralizzate da contrasti inespressi.
Correale ha sottolineato con molta efficacia che il clima di indigenza amministrativa della psichiatria 'aziendalizzata' ha prodotto uno stato di cronica indigenza emotiva delle équipe curanti.
Per affrontare lo scoraggiamento dei gruppi curanti, la gestione degli spazi di discussione in modo da valorizzare la riunione (evitando però la 'riunionite': l'infezione/infiammazione dell'organo assembleare), è decisiva.
Quando anni fa andai a Chestnut Lodge -- conoscevo male la lingua, mi sentivo frastornato e disperatamnete solo -- il responsabile della formazione mi incontrò per un'ora, mi ascoltò, mi promise che ci saremmo rivisti di lì a due settimane e preparò insieme a me programma di lavoro per la mia settimana. La mia "schedule" era basata su una precisa rappresentazione della vita politica dell'ospedale (l'ospedale ha anche una vita privata, interstiziale, che accade comunque e che viene indirettamente influenzata dal funzionamento della vita pubblica del gruppo curante). A quel punto sapevo dove dovevo essere e a che ora, per poter assistere a una rionione che avrebbe avuto come oggetto questo o quello. Con un impegno modesto, che si giovava però di un lavoro collettivo costante, il Dottor Dingman risolse un problema clinico istituzionale rilevante: conquistò uan volta per tutte la mia fiducia nella struttura dell'ospedale.
Credo che pochi di noi (a me è capitato poche volte) operino in situazioni istituzionalmente strutturate. Tentiamo di creare programmi per bordeline, che finzionano come isole di organizzazione (relativa) che galleggiano su liquide distese istituzionali che a loro volta hanno, spesso, un funzionamento sostanzialmente borderline.

metello


Cara Alice,mi rivolgo a te, come prima persona, con affetto, perché mi sembra che con grande sensibilità hai sollevato un interrogativo che anche altri amici hanno ripreso ( Anna, Antonello, Marta, Marco…)Da bambino c’ era una favola che mi spaventava molto ( e che mi spaventa tutt’ ora qualche notte…), quella del Pifferaio magico: ce ne sono diverse versioni, ma fondamentalmente è la storia di un pifferaio molto cattivo che attrae tutti i bambini di una cittadina e fa loro del male… Mi sono sempre chiesto: ma come mai i bambini lo seguono così, quasi ipnotizzati? Possibile che non si trattengano, non si proteggano l’ uno con l’ altro, non siano frenati, quasi naturalmente, dal legame affettuoso che hanno con i loro genitori, con la mamma…?Ora ho cercato sul vecchio dizionario di inglese della mamma la traduzione di drop out ( termine che usa Marco ): c’ è scritto “scomparire dal proprio posto”. Marco ne parla come una ‘ emulazione’, come fenomeni di aumento impressionante di automutilazione, come effetti iatrogeni superiori che possono verificarsi nella comunità che, almeno nelle intenzioni, vorrebbe essere invece ‘terapeutica’…Nel tuo intervento sei stata coraggiosa nel narrare, o almeno accennare, a vari episodi in cui nel corso della vita in comunità sembrava verificarsi ( e per fortuna non si è verificato in modo così massiccio e negativo ) un ‘contagio’: “ una volta ci trovammo in quattro nello stesso bagno a fare a turno per vomitare… eravamo personalità adesive – scrivi – raramente potevamo essere d’ aiuto l’ uno all’ altra… trasgressioni e gesti autolesivi…”Antonello mi pare che manifesti la stessa preoccupazione quando spiega che se avviciniamo le esperienze più dolorose della nostra vita ( l’ incontro con il trauma), rischiamo di sentirci trascinati … e di perdere la nostra capacità di riflettere sulle cose… ed Anna accenna addirittura a quando comportamenti antisociali sono la manifestazione di un segno di speranza…Non so cosa facesse Anna da adolescente ( credo che sia stata una bellissima e bravissima ragazza ), io ho fatto per alcuni anni quello che tu dici che fa il borderline: scappavo per vedere se sarei stato riaccolto o “ abbandonato”… ma non lo facevo per scelta o per provocazione, è che avevo bisogno di qualcuno che mi parlasse con quel linguaggio che Antonello dice ‘ sensuale’, ricco di aspetti espressivi, immaginativi…Cara Alice, credo che questi siano alcuni dei motivi per cui oggi faccio il terapeuta, o almeno cerco di farlo…e coltivo un po’ di ottimismo che una buona comunità terapeutica possa fermare il Pifferaio magico e la sua musica ipnotica e suggestiva.Un caro abbraccioMetP.s. Quando lo incontro, di giorno, cerco di metterlo k.o.; il problema più difficile è quando, qualche notte, viene lui a tormentarmi….

masimo rota

La via di mezzo
“…….la comuntà terapeutica è troppo presente, le cure ambulatoriale troppo poco. Sono forse necessari interventi tra presenze e assenze (A. Ferruta)”.
Vorrei farvi conoscere il centro diurno psichiatrico presso cui lavoriamo che forse potrebbe essere una possibile risposta all’interrogativo comunità si comunità no.
Il Day care è nato una decina d’anni fa con caratteristiche abbastanza diverse dagli altri Centri Diurni presenti sul territorio; è infatti aperto tutti i giorni dell’anno (tranne un paio di festività) e dodici ore al giorno dalle 8 alle 20, dando così la possibilità ai pazienti, che lo desiderano, di cenare insieme. L’idea di questa struttura si è sviluppata proprio pensando che la follia non si ferma e non fa pause nel fine settimana nonché per trasmettere l’idea di condivisione e di “famiglia allargata” che è disponibile con “intervalli tra presenze e assenze” senza trascurare le assenze degli stessi pazienti.
Insomma il centro , che noi definiamo “comunità di giorno”,è il presidio che c’è sempre , che non chiude mai, dove è possibile recarsi liberamente anche a prendersi un caffè senza nessuna procedura di ingresso.Anche chi non lo frequenta sa che c’è e ne può fruire. Per molti è rassicurante saperlo aperto, talvolta basta una telefonata per evitare una visita in ospedale, tal’altra una visita domiciliare evita un ricovero. Durante il week-end non vi sono medici o psicologi e l’atmosfera è semplicemente friendly e ludica con bassa caratterizzazione medico psichiatrica. Il ns. centro cura gli inserimenti lavorativi, effettua ogni giorno molte visite domiciliari, accompagna i pazienti e li aiuta nelle difficoltà della vita quotidiana. Durante la settimana si svolgono psicoterapie formalizzate e psicoterapie di gruppo.
Massimiliano è un ragazzo di 20 anni che frequenta il centro da poco più di un anno. E’ conosciuto dai servizi come un “grave border manipolatorio a cui non va bene nessuna proposta”. Così ci è stato presentato quando, dopo nove mesi di ospedalizzazione, i colleghi hanno deciso di “tentare” con il Day care. Il protratto periodo di ricovero era stato a volte interrotto da brevi periodi di dimissione a casa cui seguivano ulteriori ricoveri, anche mediante TSO, motivati da importanti agiti autolesivi. Concordiamo con quanto detto dal Dr. Chiesa sul fatto che lunghe degenze alimentino di fatto l’autolesionismo che comporta il rientro in reparto. Anche per Massimiliano era come se fuori dall’ospedale la sua vita non potesse funzionare; tra gli atti autolesivi del paziente quello che più di tutti ci è rimasto in mente (tra i numerosi ed allarmanti per l’équipe) è quello agito con ferite da taglio al braccio per far gocciolare il sangue in un catino,che Massimiliano poi conservava per giorni in camera. Conoscendo la storia del paziente e il suo rischio suicidario l’équipe era molto preoccupata della presa in carico di Massimiliano ma anche colpita dal suo calore e dalla sua dolcezza. Il paziente si differenzia molto dagli altri pazienti border che frequentano il Day care in quanto meno oppositivo e più dolce tanto da meritarsi il soprannome di “cucciolo”. Appare come un paziente bisognoso di quell’accudimento che solo una madre può dare ma che una madre psicotica come quella di Massimiliano non ha saputo fornire. L’accettazione della cura di Massimiliano da parte dell’équipe cela sicuramente forti sentimenti controtransferali nel tentativo di risarcirlo, seppure in piccola parte, di affetti e attenzioni che non ha probabilmente mai avuto. D’altra parte il livello di allarme per gli agiti era così elevato da indurre la stipulazione con lui di un contratto che, nella sua elasticità, è pur sempre volto a proteggere il paziente e a tranquillizzare gli operatori. Noi potevamo infatti tollerare la sua instabilità solo se vi fosse stata la volontà di ridurre gli acting; sembra banale, ma è bastato verbalizzare al paziente il “non detto”, per gettare le basi di un’alleanza terapeutica. Riprendendo il tema dei drop-out e di attacco al legame di cui si sta discutendo nel forum, mi viene da pensare come a volte non siano altro che risposte del paziente ad un progetto vissuto come eccessivamente intrusivo, intenso ed iperstimolante. Con Massimiliano il percorso è stato costruito insieme: se non voleva far morire di paura l’équipe doveva rendersi contattabile ogni giorno, qualora non presente al centro; lui ha accettato di tenere acceso il telefono e di lasciare le chiavi di casa sotto lo zerbino per gli operatori che si sarebbero recati lì in caso di mancata risposta, anche solo per un saluto (oltre che per verificare eventuali TS….), per portargli il pranzo o la cena. Un programma del genere richiede molta disponibilità e flessibilità da parte dell’équipe e capacità di sopportare l’idea che il paziente possa morire. Nel tempo sono emersi sentimenti di espulsione con proposte di rinviarlo in ospedale o in comunità. Molte notti alcuni operatori si sono rigirati inquieti nel letto pensandolo in un lago di sangue. In ogni riunione di equipe ( 2 alla settimana), da quando è stato preso in carico, gennaio 2007, si è parlato (poco o tanto) di Massimiliano con aspre discussioni sul da farsi.
Attualmente Massimiliano gode di discreto compenso, non ha più commesso agiti autolesivi e l’ultimo breve ricovero risale all’agosto 2007.
La riduzione degli acting-out è un buon traguardo, ma sicuramente è solo il primo passo nel processo di cura di Massimiliano: tollerare le ricadute e l’instabilità è oggi ancora più difficoltoso e porta a chiedersi in maniera difensiva “Ha senso ciò che stiamo facendo?”. La risposta è si, perché ora il paziente sembra sapere che l’équipe c’è e gli è affezionata nelle sue repentine oscillazioni. Ci viene da dire che lavorare con un setting stabile, con dei limiti, ma flessibile, è come poter utilizzare un elastico che, a seconda dell’esigenza, assume lunghezze differenti senza mai spezzarsi. .
Un momento di confronto con i colleghi può aiutarci nel comprendere eventuali mancanze o eccessi perché, con persone come Massimiliano, non è sempre facile tenere a mente i “limiti” e gestire le distanze anche perché il loro oscillare tra il senso della loro vita e l’abbandono a idee di morte potrebbe essere l’unico “modo” di vivere che conoscono. All’inizio della sua frequentazione è stata tentata una psicoterapia a 2 sedute settimanali, ma ciò non è stato possibile in quanto il paziente non riusciva a soffermarsi sui propri stati d’animo: o era in uno stato di prostrazione totale priva di parole, oppure negava ogni problema e sosteneva di non dovere discutere di niente. Sembrava dire ”che cosa vuoi da me, di cui non te ne importa niente ? “. Ora, a distanza di un anno e mezzo di costante interesse, per lui è possibile confrontarsi con i suoi vissuti di morte e di vita . Massimiliano pare diventato in alcuni momenti avido di sapere sul proprio mondo interno e, a patto che non gli si impongano dei tempi e una frequenza prestabilita, si hanno con lui sedute anche molto lunghe ( è difficile che il paziente accetti un tempo definito), più volte la settimana. Spesso il paziente ha bisogno di parlare di sé a partire da piccoli frammenti di materiale letto navigando su internet (testi di canzoni, aforismi,etc) . Oggi ha comunicato con orgoglio di essere riuscito a leggere con attenzione ( dice di non essere mai riuscito a soffermarsi più di10 minuti su un testo scritto ) un libretto sul Taoismo che vorrebbe rileggere con uno di noi che lo segue in psicoterapia.
Chissà che non si riesca insieme a trovare “ la via di mezzo “ .Lorena Mazzoleni
Massimo Rota

metello

Caro Marco,vorrei esprimere qualche pensiero di dissenso rispetto ad alcuni concetti che sono comparsi nei tuoi interventi. Non so se ho capito bene…Onestamente, non conosco le ricerche – che tu citi - del Dott. Robinson al Royal Free Hospital e quelle di Simon Gowers a Liverpool per le quali la residenzialità sarebbe più regressiva e iatrogena degli interventi ambulatoriali. Ora sto partendo per un viaggio, ma in aprile mi riprometto di leggerle.E tuttavia… Questi due problemi – regressività e iatrogenesi dei pazienti/residenti – sono tutti da ritenersi a carico delle istituzioni: le comunità terapeutiche?Non conosco a sufficienza la vicenda delle comunità terapeutiche in Inghilterra; in Italia, alcuni autori hanno scritto dei lavori contro, dicendo che esse sono dei gulag; ed anche Basaglia si era dichiarato contrario, giacchè secondo lui, esse rappresentano un mondo falso “ dove tutti sono buoni e i rapporti sono improntati al più profondo umanitarismo” ( Basaglia, 1968), “ ma nel quale i rapporti di potere sembrano rimanere gli stessi” ( Schittar, 1968).
Ed in effetti, in Italia, secondo me, sono anche sorte e sono tuttora operanti delle comunità sul modello di piccoli gulag!Ed allora cosa facciamo? Cerchiamo delle “ vie di mezzo” come sembrano proporre Lorena Mazzoleni e Massimo Rota, nel loro intervento?Iatrogenesi vorrebbe dire causato dalla cura, dall’ intervento che avrebbe voluto essere terapeutico;
allora cercare di avvicinare aspetti traumatici della vita di una persona/paziente – come studia Antonello e cerca di insegnarci e comunicarci – è iatrogeno? Sarebbe meglio che lasciassimo perdere?Cosa facciamo: mettiamo tutto a carico delle istituzioni: le comunità sono piccoli gulag, iatrogeni? O tutto a carico dei pazienti: i borderline sono incurabili?Potrei provare a dire il mio pensiero di dissenso in un altro modo.
S. Freud , nel 1899, nella prefazione al L’ interpretazione dei sogni, scrive Flectere si nequeo Superos, Acheronte movevo. Il motto latino apposto sul frontespizio… ed in una nota a piè pagina aggiunge: “ Il verso […] vuole raffigurare gli sforzi degli impulsi passionali rimossi”.
Insomma, potremmo anche smettere di fare gli psicoanalisti perché anche la cura psicoanalitica può essere iatrogena!Io credo che dovremmo cercare di fare un ventaglio di istituzioni ( comunità terapeutiche, di vario genere, day hospital, gruppi appartamento….) e cercare di volta in volta, paziente per paziente, ed a seconda del periodo della sua esistenza, che cosa gli può essere un po’ più utile per capire qualcosa di più del proprio stare al mondo, per stare un po’ meglio, … ma questo mi sembra che comporti inevitabilmente qualche rischio e qualche sofferenza. O almeno io li ho sperimentati nel corso delle mie analisi personali, come paziente… e per quanto stia attento, non riesco ad evitarli completamente ai miei pazienti. L’ Acheronte mi sembra un fiume piuttosto pericoloso, e comunque impossibile da navigare come semplice turista.Rispetto alla comunità che dirigo,… ricordo dei discorsi del mio caro amico Claude Olivenstein che anni fa, quando veniva come consulente, ci invitava a riflettere sulle tre dimensioni della Legge: quella reale, quella simbolica e quella immaginaria.
E’ per questo motivo che ho parlato un poco, nel mio precedente intervento, de il Pifferaio magico, una figura terribile e pericolosa della dimensione della Legge immaginaria, che può condurre al suicidio…Possiamo lavorare per cercare un modo per fare capire ai nostri pazienti – residenti che può esistere uno stare al mondo rispettando la legge dello Stato in cui viviamo, rispettando gli altri, se stessi, senza continuamente o frequentemente farsi del male, fare del male a se stessi…..? Io continuo a coltivare un po’ di speranza e di ottimismo.Caro Marco,
con stima ed affetto…
Met

Alice Banfi

Ora come ora, in Italia ci sono pochi luoghi aperti e funzionanti, come dsm aperti 24h o 12h, day hospital efficienti, ecc.
Così come la gran parte degli spdc sono luoghi ormai privi di ogni umanità; sono stata in più di tredici reparti tra pubblico e cliniche convenzionate, 12 su 13 erano dei veri e propri manicomietti.
Se si tiene conto di queste realtà, la comunità psichiatrica riabilitativa quando non è un “gulag”, rimane una delle risorse più importanti e funzionanti nel territorio.
Poi probabilmente l’ho già detto, ma non smetterò di ripeterlo, ogni intervento deve essere assolutamente soggettivo, non esiste la comunità, il centro, il day hospital o la terapia ideale per il borderline. Marco, il ragazzo di cui ci parla Massimo Rota ha trovato il “suo luogo” e la risposta ai suoi bisogni in un Day Care, “Comunità aperta”. Io con la stessa diagnosi di Marco, “disturbo grave della personalità borderline” e con sintomi a dir poco allarmanti, dopo anni di ricoveri in reparto psichiatrico avevo bisogno di un luogo altamente protettivo, accogliente e assolutamente “presente” con continuità, una comunità. Con precisione, quella comunità: il Porto.
Prima dell’esperienza comunitaria al Porto di Moncalieri ho fatto mesi di day hospital, (anni in spdc), mesi in una piccola comunità a bassa protezione, ma peggioravo, andavo sempre più giù come fossi stata su uno scivolo insaponato.
Allora è importante ciò che dice Metello, tutto può essere iatrogeno, e dipende dalla persona e dal momento di disagio che la persona sta attraversando.
Per Marco era necessario, adatto il Day Care per me la comunità ad alta protezione, per altre persone altro ancora e così via.
La differenza invece la fa quell’atteggiamento di tenerezza, quel linguaggio “sensuale” affiancati ad una rete di regole e contratti, atteggiamento che si può mantenere tanto in comunità, quanto in day hospital o in terapia individuale. Capire lo stare al mondo del borderline, essere capaci di coprire le sue nudità e di trasmettergli gli strumenti per imparare a coprirle da solo.

Poi salto un po’ da palo in frasca, per rispondere a Metello, sia per l’affetto nei suoi confronti sia perché è per me (come credo per lui) sorprendente poter oggi scambiarci idee su questi temi a questo livello.
Il pifferaio magico rende perfettamente l’idea e mi riporta a quello che aggiungeva Correale alla mia idea di copione, ovvero che non solo esiste un copione ma anche che il borderline viene risucchiato da questo copione in modo coatto, senza consapevolezza.
Ed è così che ancora mi capita di seguire il pifferaio magico scambiandolo per il principe azzurro, le mie emozioni annebbiano totalmente la mia capacità critica, razionale e non distinguo più lo “sbagliato” dal “giusto”. Solo quando ormai il pifferaio mi ha fatto precipitare come un’allocca nel burrone riesco a prendere le distanze e riguardare ciò che mi è accaduto con lucidità… e sorpresa!
Ed è in quel momento, nel momento in cui metto distanza tra me e l’accaduto, tra me e quell’area emotiva che mi appartiene e che talvolta si sovrappone alle altre aree inglobandole come un polipo, in quel momento mi rendo conto e come risvegliata mi domando: “Ma io dov’ero? Come ho fatto a non capire… dove avevo la testa?”.
Sia che il pifferaio, rappresenti una persona, una relazione o uno stato d’animo o un impulso, la difficoltà è riconoscerlo, solo dopo averlo riconosciuto ci si può combattere ma se lo si scambia per un principe a cavallo, si può solo salire con lui sul cavallo.
Allora è davvero un lavoro importante e difficile quello di dare gli strumenti necessari a persone con modello di personalità borderline affinché possano coprirsi, possano riconoscere il “pifferaio magico” ed in fine lo possano contrastare.
Quindi se il “dove” è soggettivo, questo “come” è sicuramente oggettivo.

P.S. Caro Metello, fai bene a coltivare speranza e ottimismo, nessuna persona sofferente di disagio mentale deve essere ritenuta senza speranza. Senza quella speranza, quell’ottimismo e anche quella tenacia, io oggi non sarei qui.
Alice Banfi.


cassel


Il problema dei drop-out non e' da sottovalutare perche' e' uno degli indici piu' importanti per la valutazione della efficacia di un programma terapeutico. Purtroppo non ci sono dati attendibili riguardo i drop-out medi delle strutture residenziali a tipo comunitá terapeutica nella bibliografia presente. Il nostro studio ha rivelato percentuali alte (27.5% nei primi 2 mesi dall' ammissione e un drop-out totale del 63% per pazienti a lunga degenza). I dati dall' Henderson non sono ufficiali, ma e' consentito estrapolare livelli di dropout che superano il 65%. In contrasto il programma territoriale con pazienti simili per gravitá e cronicitá ha un tasso di drop-out molto inferiore (8.8% nei primi 2 mesi e 27% dopo 18 mesi)(Chiesa et al. 2000; Chiesa et al 2008). Altri dati provenienti da centri specialistici ambulatoriali e di day-hospital dall' America, UK, Norvegia e Germania confermano percentuali relativamente basse di drop-out, con poche eccezioni. Questo significa che 1) Il programma territoriale/ambulatoriale/day-hospital e' meglio tollerato dai pazienti e b) Bisogna indigare sulla natura del fenomeno. Questo noi abbiamo fatto nel nostro lavoro sopra citato con un' analisi qualitativa (interviste ai pazienti) e quantitativa dei dati. Il reparto residenziale ha cercato di recepire i risultati della ricerca e a cominciare dal 2000 ha iniziato ad instaurare cambiamenti in alcune componenti del programma per tentare di diminuire il drop-out. Ebbene, dati recenti dimostrano che il livello di dropout non e' diminuito nel corso degli anni, ma e' rimasto stabile. E' plausibile pensare che vi siano fenomeni inerenti alla residenzialitá a lungo termine che favoriscono l' abbandono precoce del trattamento?
Su un altro punto che hai sollevato, sono daccordo che alcuni pazienti traggono molto beneficio dall' esperienza comunitaria, ma il problema e' di sapere che percentuale e' rispetto a tutti i pazienti ammessi, e soprattutto di sapere a priori chi ne potrá trarre beneficio al momento della valutazione iniziale. In realtá le nostre capacitá predittive ono scarse e non abbiamo un' idea chiara riguardo alle dimensioni e caratteristiche che predicono un buon outcome. Inoltre, non sappiamo con certezza se i pazienti che migliorano nelle comunitá non migliorerebbere se fossero trattati in un programma specialistico ambuilatoriale/territoriale. In Inghilterra si sta introducendo lo 'step-care approach to mental health care', per cui i pazienti vengono trattati con terapie a una superiore complessitá e costi a secondo della loro risposta al trattamento. Coloro che non rispondono al primo approccio vengono inviati al tier 2, poi al tier 3 e cosi' via, questo per evitare che pazienti vengano trattati con interventi troppo complessi e costosi quando potrebbero rispondere a interventi di 'tier' inferiore e meno costosi.
Cari saluti,
_________________
Marco Chiesa
Primario Psichiatra
Cassel Hospital


a.ferruta


Il dibattito sulla difficoltà a trovare per i pazienti borderline quell'holding che permetta di diventare se stessi mi è sembrato non rituale e interessante. Mette al centro dell'attenzione quel bisogno di stabilità che è fondamentale per la crescita psichica, là dove un basic fault l'ha incrinata.
Questa base di stabilità penso che non possa essere fornita da una persona sola in un rapporto terapeutico duale perché la natura dinamica di questa relazione è quella di essere continuamente distrutta; nememno può essere una struttura tradizionale statica e chiusa perché la sua dinamica stenta a seguire il divenire.
Una buona combinazione dei due elementi, come emerge dai contributi di Metello Corulli e Marco Chiesa' è cercata nelle loro iniziative terapeutiche,
Si tratta di andare avanti in queste direzioni, mettendo a fuoco il problema e proponendo una mente di gruppo che collochi al primo posto la necessità di capire i'intreccio tra bisogno di holding e di crescita psichica. Si tratta di entrare profondamente nella comprensione di che cosa accade in queste situazioni di sofferenza psichica, e di agire poi di conseguenza, in una situazione molto individualizzata, come osserva Alice Banfi, utilizzando nella relazione di cura continuamente diversi steps:
attuning
understanding
doing

Grazie a tutti quelli che sono inetrvenuti con intelligenza e passione.
_________________
Anna Ferruta

Marta Vigorelli
Ci ricolleghiamo all’intervento conclusivo di Anna Ferruta e ai suoi ringraziamenti per la partecipazione così sentita di chi ha contribuito a questo Forum, prospettando alcune linee di sintesi che non intendono esaurire un argomento così complesso e in divenire, ma porre qualche punto fermo e condiviso, suggerendo alcune aree di lavoro per il futuro.

1)DALLA PARTE DEL PAZIENTE BORDERLINE: COME INCONTRARLO, COMPRENDERELO E ORGANIZZARE IL TRATTAMENTO DI CURA

Su questi aspetti la massima convergenza degli interventi ha avuto come tessuto connettivo di aggregazione il testo iniziale di Correale e la sua precisazione sulle caratteristiche dell’esperienza traumatica che segna drammaticamente la personalità borderline con l’alterazione dello stato di coscienza e la tendenza cogente alla ripetizione. Viene anche sottolineata l’importanza di un linguaggio vivo, ricco di connotazioni immaginifiche ed esistenziali per consentire l’incontro e la comunicazione con la sua soggettività, attraverso quella capacità di identificazione empatica che la parte migliore di certa fenomenologia e di una certa psicoanalisi ci hanno insegnato (Alice Banfi, Val, Aldo Lombardo, Metello Corulli).
Da tutti è stata ribadita l’importanza di una valutazione clinica iniziale attenta (e aggiungerei accuratamente psicodiagnostica) dello stato e delle difese del paziente a cui si propone un percorso di cura e una forte alleanza terapeutica; in questo senso ogni trattamento esige una unicità e una forma “su misura”, che possa essere di volta in volta scelta secondo il momento della sua esistenza, la pervasività del disturbo e il suo bisogno di protezione soprattutto dai rischi autolesivi (Banfi, Corulli, Chiesa)

Il dibattito sull’organizzazione del trattamento si è concentrato soprattutto attorno al tema discontinuità- continuità, sulla necessità di una base sicura e al contempo di una regolazione della giusta distanza, di holding e orientamento alla crescita, di tolleranza dell’alternanza di presenze e assenze, di “rientri” e uscite dalle relazioni terapeutiche senza espulsioni o abbandoni da parte dei curanti che favorirebbero drop out e rotture radicali.
L’impostazione personalizzata della cura, per step e per obiettivi è però stata appena accennata ed esigerebbe ben altri approfondimenti e riflessioni, mentre è assodata l’importanza di un’integrazione tra momento individuale e momento gruppale della cura, tra l’intimità di un rapporto con l’operatore di riferimento da un lato e articolazione di varie forme di rapporto sociale e riabilitativo dall’altro,inseriti entrambe nel lavoro di équipe che ne costituisce l’insostituibile possibilità di rielaborazione e di sintesi. (Correale, Ferruta, Gio, Santoro, Rota, Mazzoleni)

 

2)DALLA PARTE DELL’ISTITUZIONE: DOVE - SPAZIO E TEMPO – SI SILUPPA IL PERCORSO
Attorno al tema di quale struttura sia più idonea all’accoglimento del paziente borderline, se debba convivere con pazienti psicotici o di diverse psicopatologie e se sia necessaria una struttura ad alta media, bassa protezione, un ambulatorio o un day hospital si è accesa una discussione molto interessante, ma che esige nella realtà italiana maggiori evidenze sul piano dei risultati dei diversi tipi di trattamento; indubbiamente il carattere di flessibilità, di non staticità o chiusura, permeabilità e definizione dei confini, e di affettuosa fermezza delle regole sono i fattori del setting più riconosciuti, così come l’alternanza tra diverse funzioni quali la sintonizzazione, la comprensione e un fare orientato a convalidare le risorse emotive e cognitive del paziente (Ferruta, De Crescente, Rota, Mazzoleni, Corulli, Chiesa)

Problematico e spesso critico risulta il collegamento tra le strutture territoriali invianti e le comunità terapeutiche o le residenze e i day care, sia per l’ambiguità del mandato che per il riproporsi delle spinte scissionali, connaturate al funzionamento sofferente del paziente che si riflette in modo speculare nell’articolazione conflittuale sovente mal gestita dei servizi. (Perazzi). Più che per altre patologie, quella borderline esige un attento monitoraggio di questi collegamenti, verifiche frequenti dei progetti, valutazione dei tempi per le dimissioni e soprattutto quella periodica “manutenzione” delle diverse istituzioni ribadita da Foresti nel suo intervento.

3)DALLA PARTE DEL GRUPPO DEGLI OPERATORI E….. DELLA LEADERSHIP
La sofferenza e le difficoltà del gruppo curante a contatto con la turbolenza borderline è stata esplorata a partire dal concetto di “traumatizzazione vicaria” e dal riconoscimento dei vissuti di impotenza ed estenuazione del controtransfert degli operatori. Anche questo è un tema in nuce, tutto da sviluppare, insieme alla specificità della leadership e del tipo di formazione che dovrebbe costituire l’attrezzatura imprescindibile per chi quotidianamente vive a contatto con questi pazienti. (Ghisotti)

4)LA RICERCA PER VALUTARE GLI ESITI E L’EFFICACIA DEI TRATTAMENTI

Ben sappiamo che negli organismi ufficiali del nostro Servizio Sanitario Nazionale o nei progetto Obiettivo, non solo il problema “borderline” non è ancora una priorità specifica, ma neppure viene segnalato con sufficiente rilievo, nonostante il disagio manifestato con violenza dai pazienti e il carico dei familiari, dei servizi “traumatizzati” e degli operatori impreparati.
Per questo ci è sembrato significativo il richiamo della lettera aperta di Correale su POL-IT del giugno 2007 sull’importanza di realizzare osservatori clinici, centri studi dislocati nel territorio, da cui trarre linee guida per affrontare quello che ha definito la questione borderline, intesa non solo come disturbo di personalità, ma come spia e metafora concreta di un disagio sociale diffuso e di una situazione giovanile tendente all’emarginazione e nei confronti della quale è in atto uno stigma subdolo, ma ancor più radicale di quello provocato dalla psicosi.

Inoltre ci sembra convincente la posizione ribadita con forza da Marco Chiesa nel Forum, circa l’importanza di documentare con dei dati e un monitoraggio costante del processo, degli esiti e del modello terapeutico la nostra operatività con i pazienti, in funzione del cost-effective e soprattutto di quanto può essere efficace per affrontare un disturbo così grave e dirompente a livello sociale.
Questa sfida posta al movimento delle comunità terapeutiche ci porta a riflettere sulle differenze tra la politica clinica e la cultura della ricerca e della valutazione dell’efficacia (effectivness) che caratterizza l’organizzazione sanitaria inglese rispetto a quella italiana, ma anche su ciò che può essere estensibile alla nostra realtà, senza negare o ridurre il “modo di stare con il paziente” che abbiamo prima delineato, proprio a partire da quella integrazione feconda, tra clinica, teoria e ricerca empirica che contraddistingue la psichiatria psicodinamica più avanzata, (Gabbard 2000, Fonagy 2006). Ne è testimonianza la notevole ricchezza di pubblicazioni, tra cui citerei come esemplare il Trattato dei Disturbi di Personalità pubblicato recentemente da Raffaello Cortina (Oldham, Skodol, Bender 2008)
E’ su queste basi, cioè a partire dai risultati di ricerche sul campo e non su dispute ideologiche o pregiudiziali battaglie teoriche o campanilismi associazionistici, che il National Institute for Mental Health ha formulato linee guida e indicazioni programmatiche per il superamento dei trattamenti a lungo termine, nonché la chiusura di molte Comunità terapeutiche dimostrandone l’effetto iatrogeno e promuovendo invece la realizzazione di équipes specialistiche multidisciplinari con servizi ambulatoriali in aree del territorio con alta incidenza del disturbo Borderline.
Questi stessi risultati potrebbero non valere per noi, se solo possedessimo altrettanti dati o avessimo avviato ricerche simili su cui confrontarci. Cito a questo proposito un intervento di De Crescente su Psychomedia (18 gennaio 2008): “E’ pur vero che l’intervento in comunità propone un grado di complessità tale da rendere difficile identificare i fattori specifici di efficacia, tanto da indurre molti ricercatori alla conclusione che la comunità funziona soprattutto per fattori a-specifici (clima emotivo, qualità delle relazioni etc.) Se pur ciò risultasse vero, nulla toglie che chi ha l’obbligo di giustificare la giustezza dell’intervento debba farlo dati alla mano, ossia rendendo chiaramente visibili in una ricerca, le trasformazioni psicopatologiche e della qualità della vita degli ospiti, che hanno trascorso un periodo significativo in una CT. A questo riguardo le associazioni di settore sono chiamate direttamente in causa”.
Se il compito inesauribile di umanizzazione dei servizi, deve essere comune a tutte le istituzioni deputate alla cura, ovunque al mondo e non solo a quelle italiane, ciò che ancora ci manca è una costante cultura dell’autoriflessione e della valutazione di quanto andiamo facendo. In questo senso, la sfida proposta da Chiesa può diventare un obiettivo appassionante di lavoro per il prossimo futuro.

L’esigenza di approfondire ulteriormente la discussione su questi temi appena abbozzati e le difficoltà di chi opera in questo settore, ci fanno proporre una ripresa del Forum, dopo le vacanze estive, come spazio per continuare il dibattito, su richiesta delle persone ora iscritte o di nuove, che possono inviare alla nostra casella di posta una loro adesione. Il materiale del Forum verrà inserito nel sito nei prossimi giorni.

Infine un grazie ancora a tutti per avere favorito il clima di collaborazione e la tensione a trovare un orientamento comune pur nella dialettica delle diverse esperienze. Un grazie particolare ad Alice Banfi per il contrappunto artistico agli interventi.

Marta Vigorelli